1985


Il Resto del Carlino, Adriano Cavicchi: Aroldo alla Fenice [24.12.1985]

VERDI PENSOSO, NON MINORE

Successo alla Fenice di «Aroldo» e «Stiffelio» diretti da Inbal

Dall’inviato Adriano Cavicchi 

Il granteatro La Fenice di Venezia ha inaugurato la stagione lirica con un’iniziativa di straordinario impegno: non una ma due opere di Verdi tra le meno note anche agli specialisti: Aroldo e Stiffelio. Molto opportunamente, anche a causa della rarità di messa in scena di questi due lavori, lo spettacolo è stato preceduto da un convegno di quattro giorni al quale hanno partecipato una trentina di studiosi provenienti da tutto il mondo. La vicenda complessa e poco fortunata di Stiffelio (prima a Trieste 1850) che dopo sette anni viene trasformato in Aroldo (Rimini 1857), merita due parole di premessa. Intanto il soggetto, poco brillante, centrato sulla parabola evangelica dell’adultera e sostanzialmente mirato all’introspezione dei sentimenti, poco si presta a quei colpi di scena e a quei contrasti drammatici e musicali sia del Verdi risorgimentale che di quello della così detta trilogia popolare. Ciò non significa che questo «dramma borghese» non sia un’opera riuscita e piena di pagine di straordinaria inventiva e vitalità drammatica. Soprattutto la prima trasformazione attuata da Verdi per la Fenice (1852), che Giovanni Morelli ha ripristinato nell’edizione andata in scena l’altra sera con cordiale successo, rivela l’impronta e l’intuizione drammatico – musicale del miglior Verdi e non v’è dubbio che in quest’opera vi si trovino evidenti quelle anticipazioni che esploderanno nelle successive creazioni: Rigoletto, Traviata e Trovatore.

Verdi era ben consapevole di aver scritto un’opera di gran pregio ma ciononostante il dramma del tradimento coniugale e suo successivo perdono stentava ad affermarsi. Sull’onda di interessi culturali multipli verso il medievalismo, che registrarono addirittura una diffusione di dimensione popolare dopo gli anni 1859, Verdi si lascia tentare alla riscrittura di Stiffelio in Aroldo retrodatando il pastore protestante in crociato del millecento.

La circostanza esterna e decisiva della trasformazione fu l’apertura del gran teatro costruito dall’architetto modenese Luigi Poletti per la città di Rimini. Quindi Aroldo è l’unica opera appositamente scritta da Verdi per un teatro dell’Emilia Romagna. Purtroppo questo splendido edificio, danneggiato nell’ultimo conflitto mondiale, è stato abbandonato allo sfascio ed oggi, dopo oltre quarant’anni, si auspica una sua ricostruzione fedele al modello originale a norma dei progetti autografi conservati.

Aroldo quindi ricicla i migliori materiali di Stiffelio con in più elementi decorativi e di amplificazione sonora e spettacolare di notevole funzionalità teatrale. A tal fine la Fenice ha proposto l’esecuzione successiva delle due opere, prima Aroldo e poi Stiffelio affinché il pubblico si rendesse conto da un lato della vitalità artistica della prima opera e, nella seconda, del gusto e dei modi di rielaborazione. Il giudizio che se ne può dare a questo primo ascolto è senza dubbio più favorevole a Stiffelio (anche perché questo si avvaleva di una migliore compagnia di canto) ma anche Aroldo è senza dubbio lavoro di gran pregio e degno di ripercorrere le nostre scene. Pierluigi Pizzi ha curato la visualità delle due opere con la sua solita incisività e buon gusto. Di bella suggestione la scena finale di Stiffelio. Ma il protagonista musicale per eccellenza di questo duplice evento operistico è stato il direttore d’orchestra Eliau Inbal il quale ha saputo condurre con assoluta sicurezza d’intenzioni drammatiche solisti, coro e orchestra – quest’ultima notevolmente compatta – ad una precisa configurazione della drammaturgia verdiana. Dall’ormai mitico Don Carlo diretto da Inbal all’Arena di Verona con la regia di Vilar ci siamo chiesti più volte come un direttore così finemente verdiano abbia trovato così scarse opportunità di impiego anche nei maggiori teatri d’opera italiani.

La pregevole iniziativa della Fenice, alla quale si affiancano sul piano scientifico Università e fondazioni «Cini » e «Levi», ha contribuito a diffondere la conoscenza di un Verdi poco noto ma ricco di aspetti di singolare interesse.

[Il Resto del Carlino, 24 dicembre 1985]

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Tazebao, Franco Minelli, Attilio Giovagnoli: "Chi non vuole il Teatro a Rimini" [17.12.1985]

CHI NON VUOLE IL TEATRO A RIMINI 

E’ davvero sorprendente l’avversione che gli amministratori riminesi hanno mostrato in questi 40 anni, e mostrano tuttora, nel battersi contro il recupero filologico dell’ex Teatro Galli. Prima non curandosi di salvaguardare, all’indomani dei bombardamenti della guerra, le strutture ancora solide e recuperabili. Poi arrivando addirittura a provocare con selvagge demolizioni, maggiori danni al teatro di quanti ne avesse prodotti la guerra. Le motivazioni addotte allora, e avallate oggi da pseudo storici locali, per giustificare l’opera di demolizione (la salvaguardia della pubblica incolumità) appaiono francamente ridicole, mentre in realtà il Comune intendeva, in questo modo, liberarsi degli scomodi proprietari dei palchi e delle loro rivendicazioni, nonché utilizzare, per altri scopi, i 50 milioni (del 1948!) stanziati dallo Stato al Comune per i danni di guerra subiti dal teatro. C’è da meravigliarsi, visto come andavano le cose, che qualcosa di questo edificio si sia salvata. Dopo l’inutile concorso bandito dalla Cassa di Risparmio nel ’59 il Comune concedeva l’autorizzazione all’uso della parte demolita come sala fieristica, oggi adibita a palestra. 

Nel’85 l’Amministrazione Comunale bandisce un concorso di idee, per il Teatro Galli e per piazza Malatesta, da molti – anche tra i sostenitori del recupero filologico – accolto come segno positivo del rinnovato interesse del Comune per la soluzione di questo annoso problema. Le cose stanno ben diversamente. L’antica acredine degli amministratori verso questa «ingombrante presenza» si manifesta chiaramente nella nota storica allegata al bando, curata da Pier Giorgio Pasini, che critica apertamente l’ubicazione del teatro, minimizza il valore dell’autore, le qualità architettoniche e la tradizione musicale e di spettacoli dell’opera, tendendo complessivamente a metterne in cattiva luce ogni aspetto sulla base di pretestuose e singolari argomentazioni. Ma ancora più tendenziosa è l’Amministrazione Comunale laddove, nelle stesse norme del bando, indirizza i partecipanti al concorso, se vogliono avere qualche speranza di successo, verso la presentazione di progetti di costruzione ex-novo di un edificio che addirittura potrebbe contenere «spazi connessi da dedicarsi, ad esempio, ad attività didattiche e culturali, commerciali, ricreative, sportive, artigianali». Non si possono dunque che fare fosche previsioni sul futuro del teatro.

Ciò che appare più ingiusto è delegare ad una giuria di 15 persone, non si sa bene selezionate in base a quali criteri – fra le quali tra l’altro non figurano né rappresentanti della Sovrintendenza alle Belle Arti, né scenografi, né direttori d’orchestra, ecc, - la responsabilità di una scelta che riguarda direttamente ogni cittadino, che al solito verrà informato a cose fatte. Qualcuno può sostenere che l’Amministrazione Comunale non sarà vincolata alla realizzazione del progetto vincitore del concorso. Tuttavia è certo che questo concorso costituisce una pesante ipoteca sul futuro del Teatro Galli e che l’Amministrazione ha già deciso quale strada percorrere, che non è certo quella del restauro. Restauro che invece appare per più ragioni la soluzione più valida. Perché quello era il teatro di Rimini ed esiste in buona parte e il suo recupero consente di ricollegarsi alla tradizione e alla storia cittadina, offrendo un’attrattiva turistica di qualità non indifferente oltre che un’occasione di crescita culturale per la cittadinanza.

Perché in questo modo ci si potrà avvalere dei finanziamenti previsti dallo Stato per questo tipo di interventi. La ricostruzione filologica, caldeggiata anche dai responsabili dei beni culturali della Regione e dalla Sovrintendenza nel piano di recupero dei teatri storici della regione, è avvalorata dalla ricca documentazione esistente: piano esecutivo e progetti originali, decine di disegni con particolari architettonici, lettere dell’architetto con indicazioni dettagliate sui materiali e le decorazioni, rilievi del 1926, fotografie, ecc.

Se si vuole davvero che il teatro sia di tutti i cittadini, tutti i cittadini devono poter dire la loro sul teatro.

Arrivati a questo punto, l’unico modo per farlo è concludere in fretta l’infelice e costosa (238 milioni) vicenda del concorso per poi consultare – nelle forme e nei modi più opportuni la cittadinanza sulla scelta da operare. Questo avrebbe dovuto fare fin dall’inizio l’Amministrazione, lo faccia almeno alla fine. 

[Attilio Giovagnoli, Franco Minelli, Tazebao 1, 17 dicembre 1985]

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