1999


La Voce, Giovanni Rimondini: "Ha un senso parlare di falso in architettura?" [11.6.1999]

Ha un senso parlare di “falso” in architettura?

di Giovanni Rimondini

 Il principio modernista che condanna la ricostruzione di un edificio monumentale, semidistrutto o distrutto per cause naturali o belliche, si impone nella nostra cultura del dopoguerra insieme ai dogmi del realismo socialista. Si diceva: “ricostruire un edificio sia pure secondo il suo originale disegno è produrre un “falso”: l’edificio “autentico” o “autografo” una volta perduto va sostituito con un’altra opera “autentica”, non con una copia “falsa”. Questo principio si fonda su una concezione dell’autenticità - autografia dell’opera architettonica che è stata approfondita di recente e riformulata. Un’architettura non è “autografa” come una pittura o una scultura, opere d’arte che esigono che il “creatore” sia anche l’ “esecutore”, è autografa solo nel disegno mentre l’esecuzione viene affidata ad altri operatori (direttori dei lavori, capomastri, stuccatori, falegnami, ecc.).

Le bombe e le decisioni dei “politici” hanno distrutto per sempre la sala del Teatro Polettiano “eseguita” dalle maestranze ottocentesche, dallo stuccatore Giuliano Corsini, dal pittore Michele Agli; non però l’opera d’arte creativa e veramente insostituibile, il grande sipario di Francesco Coghetti, la “parete” superstite della sala. E soprattutto non è andata perduta l’ “idea” di Luigi Poletti, il “disegno” conservato nella sua biblioteca modenese. Un’ architettura è come un brano musicale. Questa metafora, usata di recente da Paolo Marconi, sarebbe piaciuta all’Alberti. Se si conserva il disegno-spartito, un direttore e dei musicisti-esecutori sono in grado di riprodurla, di ri-eseguirla, come si fa con una sinfonia di Mozart. Su questo principio concorderebbe lo stesso Poletti, che, in previsione incendi, terremoti, ecc. aveva consegnato all’ingegnere comunale “tutti gli studi di dettaglio e d’insieme (e) anche i calchi per tutta la parte ornamentale” che si conservavano ancora nel 1926. Ha scritto di recente Valter Piazza: “L’opera superstite (del teatro Polettiano) non fu completata dall’architetto Luigi Poletti e subì diversi interventi nel passato”. Gli risponde, in una lettera, a Cesare Campori del 5-VI-1865 (inedita), Luigi Poletti: “Il Teatro di Rimini fu tutt’opera mia, sia nei disegni, nei modoni, modelli grandi al vero, … e nella condotta di tutti i singoli lavori, persino nel mobilio”. Valter Piazza è l’ispettore di zona della “Soprintendenza Integrata” (espressone di Pier Luigi Foschi) di Ravenna al quale sono affidati i monumenti o beni architettonici di Rimini, è un architetto, e quindi ha poca dimestichezza con la storia, così da non diffidare delle “veline” che forse arrivano dall’ufficio del sindaco Giuseppe Chicchi. Dal quale ufficio, per avvilire l’opera polettiana provengono le reiterate affermazioni sulla mancata autografia polettiana del teatro. per lo stesso motivo, i bagni del teatro Nataliniano sono stati collocati prima negli intercolunni degli scaloni, poi negli spazi aulici ai lati della sala delle colonne e della sala Ressi. Anche ad opera della “Soprintendenza Integrata” in dispregio del valore monumentale e del vincolo ministeriale che protegge la parte superstite del teatro.

Giovanni Rimondini

[Ha un senso parlare di “falso” in architettura?, La Voce, 11 giugno 1999]

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